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Intervista a Gerardo Marazzi, pittore-architetto con il sogno di Dante nel cassetto

 
Biografia Gerardo Marazzi

L’Architetto e il Surrealismo

di Giampiero Mazza

 

Nato a Roma nel 1958 da genitori lombardi, originari di Sabbioneta in provincia di Mantova, Gerardo Marazzi inizia a dipingere a 14 anni, o “forse anche di meno”, spinto da un naturale amore verso l’arte che lo porterà a laurearsi nel 1981 in Architettura. Subito dopo inizia a lavorare come libero professionista, un’attività che ancora oggi gli dà soddisfazioni, senza per questo mai abbandonare la passione per la pittura, una compagna di vita da cui non si è mai separato, se non per prendersi un periodo di riflessione alla fine degli anni ’90.

Marazzi, come è nata la sua passione per la pittura?

È stata tutta “colpa” di mio padre. Insieme alla mia famiglia sono stato protagonista di un caso di emigrazione al contrario, non dal sud verso il nord, ma dal nord verso il sud, o meglio verso il centro Italia perché ci siamo trasferiti a Roma. Pur provenendo da Sabbioneta, la residenza estiva dei Gonzaga, mio padre, un commerciante, era da sempre un appassionato di arte romana e questa passione me l’ha trasmessa fin dai miei primi anni di scuola. Da qui alla pittura come hobby adolescenziale il passo è stato breve.

E tale è rimasta?

No, il mutamento – con la presa di coscienza che il rapporto tra me e la pittura era cambiato definitivamente per divenire un elemento primario della mia vita – è avvenuto tra il 1988 e il 1990, quando ho iniziato a frequentare certi ambienti culturali romani; lì mi sono avvicinato alla corrente surrealista di Max Ernst, Salvador Dalì e Marc Chagall, immergendomi così in una sorta di simbolismo. Subito dopo ho allestito la mia prima mostra personale, “Dinamica Evocativa”, in cui il ricordo era filtrato dal sogno. Al tempo i miei simbolismi erano molto evidenti e facilmente decodificabili, almeno dagli addetti ai lavori, mentre per tutti gli altri il mio quadro poteva essere giudicato basandosi semplicemente sul colore. D’altra parte un esempio per me sono sempre state le opere di Dalì, con i loro colori vivaci, anche se dietro quella loro brillantezza è sempre esistita una riflessione dell’artista secondo cui ogni colore era abbinato di volta in volta a un sentimento, a un pensiero.

Quindi possiamo considerare Dalì il suo artista di riferimento?

Sì, mi sono sempre ispirato a Ernst, a Chagall, ma soprattutto a Dalì, un artista capace di scomporre un’opera di Raffaello, anzi di farla “esplodere” in tante parti, ma sempre avvalendosi di una tecnica eccelsa.

I suoi studi di architettura hanno influito sulla sua arte? Se sì, come?

Mi è sempre piaciuta l’architettura tradizionale, anche se in questo momento vivo un certo slancio verso il nuovo, purché non sia ripetitivo. Ispirandomi all’architettura tradizionale, sono quindi molto attento a quello che potrebbe essere definito lo spirito di un luogo, il suo genius loci. A questo proposito non posso dimenticare che noi viviamo in Italia, il Paese dove si trova la maggior parte delle opere architettonicamente più significative al mondo, la sola Roma sarebbe sufficiente a darci questo primato. Senza nulla togliere a città meravigliose come Parigi, dove però molti dei principali monumenti non sono che delle riproduzioni, seppur splendide, di opere e stili romani. Ad esempio, l’Arco di Trionfo della capitale francese è un’opera bellissima e assai celebrata, ma gli archi di trionfo originali sono a Roma. E questo vale anche per le colonne rostrate, sempre di Parigi, gli “originali” sono nel Foro Romano, e così via.

Poter contare su una tale “memoria” aiuta un architetto?

Sì, avere questi “sedimenti” mi ha aiutato quando ho lavorato per il Centro Culturale Amministrativo di Velletri; in questi casi si cerca di produrre architetture che possano essere assimilabili al contesto storico italiano. Diverso è il caso in cui ci si trovi a operare in luoghi completamente nuovi, come ad esempio a Roma, nella zona della Magliana, in periferia, dove nulla vieta di costruire dei grattacieli, alla stessa maniera di come è avvenuto a Parigi nei quartieri de La Dèfense e de La Villette, anche loro a molti chilometri dal centro della città. Bene hanno fatto, invece, sempre parlando di Parigi, quando si è trattato di affrontare il rifacimento del Louvre, in centro città; qui hanno usato in maniera opportuna un’architettura tra le più semplici possibili, un accesso vetrato fatto al centro del più bel palazzo parigino, ma con richiami “nobili”, alle piramidi egizie. La stessa Tour Eiffel, nata per l’Esposizione Universale del 1889, oggi appare “fuori dal coro” lì dove è collocata, ma non dobbiamo dimenticarci che al tempo venne eretta tra grandi prati, lontana 5-6 chilometri dal centro della città di allora, una distanza nei fatti ancora più grande di quella immaginabile oggi, perché a quel tempo ci si muoveva a cavallo o in carrozza, al massimo con le prime auto. In conclusione, ritengo che architetture che superino certe misure, in un contesto in cui questo eccesso di misure non era stato previsto, stonino.

Torniamo alla pittura. Come lavora Gerardo Marazzi?

Molti mi hanno chiesto quanto tempo impiego per dipingere una tela. La risposta è che impiego una vita a pensare un’opera e un attimo a realizzarla. Di solito mi focalizzo su un dipinto, ma una volta realizzato spesso mi appare solo l’inizio di un ciclo molto lungo. Nel caso di “Oneiros Oniro” il mio ultimo ciclo pittorico, tutti i quadri, tranne uno, e solo perché non avevo più tele, sono stati realizzati come dittici in cui il taglio centrale è costruito come se non ci fosse e l’immagine paesaggistica del sogno è posta su più piani. Per chi osserva, un mio paesaggio – città o altro luogo che sia – non deve avere significato, ma comunicare soltanto quello che desidero trasmettere. I miei quadri sono distinti in tre parti, una completamente astratta, una quasi figurativa, ma come una quinta, e un’altra surreale, impalpabile. Ogni mio quadro ha una parte orizzontale, che potrebbe essere anche a se stante, un cielo, un terreno, il mare, un fiume, qualsiasi cosa, dipinta in maniera astratta. Si tratta della prima immagine che mi viene in mente quando inizio a pensare all’opera e faccio qualche schizzo. Ad esempio, in “Smoke jazz”, del ciclo “Oneiros”, l’immagine richiama alla mente New York, ma potrebbe essere una qualsiasi città, Hong Kong, Shanghai, e il suo primo schizzo è stato fatto su un pezzo di carta da pane all’interno di un ristorante. Guardando questo quadro, nella sezione in basso, si vede una proiezione di colori liquidi su una superficie liquida, come in alcuni quadri di Monet, in cui a connotarli sono sufficienti i riflessi sull’acqua e le ninfee, tutti, per certi versi, eguali e ognuno comunque meraviglioso. Nei miei quadri, quindi, non conta il luogo in apparenza ritratto, ma il luogo dell’uomo, conta la meraviglia della natura stessa. Spesso nelle mie opere lo skyline delle città ritratte non ha molti dettagli, piuttosto ha colori, anche se i pochi dettagli presenti fanno comunque intuire il luogo ritratto. Infine c’è la parte a chiusura, che è un altro aspetto sempre astratto, ma più etereo, più impalpabile. Nel caso specifico di New York, ad esempio, i rossi del cielo che, come peraltro in molte altre città industrializzate, riproducono i colori causati dall’inquinamento.

Nel passato ha dipinto a olio, oggi lavora con i colori acrilici. Quali sono le differenze?

È vero, i miei quadri più recenti sono degli acrilici e quando si lavora gli acrilici si deve operare un po’ come se si lavorasse degli affreschi, si dipinge rapidamente, altrimenti il colore si asciuga e ci si deve ripassare sopra. C’è un lato positivo in tutto ciò: se si corregge, si fanno più strati e questo produce colori diversi che magari possono meglio raggiungere l’effetto che si desidera. Per dipingere utilizzo qualsiasi cosa, dal pennello alla spugna, al carboncino, alle mani, allo spruzzo, allo bombolette, ai contenitori dei profumi con dentro i diversi colori per rendere quell’impalpabile umidità, quel fumo, che spesso ricopre le città. Differente è la pittura a olio, che permette molti ritocchi e alla fine risulta più definita. La differenza è nella velocità di esecuzione, un quadro a olio posso farlo in sei mesi, un acrilico no.

Ha mai “tradito” la pittura per qualche altra forma di arte?

Prima di tutto mi sono dedicato all’architettura, che è allo stesso tempo il mio lavoro e un altro modo per me di fare arte, in cui però si deve talvolta scendere a compromessi perché la tua proposta, che tu valuti artisticamente valida, magari non piace al committente e devi rinunciarci, in tutto o in parte. Per il resto, non ho mai tradito la pittura per altre forme di arte, anche se mi sarebbe molto piaciuto dedicarmi alla musica e alla scultura. Quest’ultima, in particolare, mi ha sempre molto interessato, ma non possiedo il luogo e lo spazio necessari per lavorare materiali come il marmo, il legno o il metallo.

Che momento vive l’arte oggi in Italia?

Un grande problema dell’arte italiana, e della pittura in particolare, è l’assenza di scuole, di luoghi dove, chi è dotato di talento, possa cimentarsi e farsi conoscere. La situazione è diversa a Parigi e a Berlino, in Italia esiste qualcosa soltanto a Milano, ma è comunque poco. A Roma, ad esempio, il movimento artistico che faceva capo a via Margutta, ormai è scomparso, non esiste più. Molti dei suoi protagonisti sono divenuti anziani, se non sono già scomparsi.

Il titolo del suo ultimo ciclo suggerisce la domanda. Qual è il sogno che ancora non ha realizzato?

Non uno, ma tanti. In ambito artistico, almeno una decina. Uno riguarda Dante e i cento canti della Divina Commedia. Vorrei realizzare un quadro per ogni canto, quindi un ciclo di cento opere. Alcune le ho già in mente, le ho studiate e vorrei realizzarle come pitture surrealiste.

Perché Dante?

Dante è l’anello di congiunzione tra il periodo classico greco e romano – i migliori pittori romani, quelli che ci hanno lasciato splendide opere a Pompei, erano tutti di origine greca – con la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento. Dante dà significato al modo di vivere di ciascuno di noi con la descrizione del suo viaggio dall’Inferno al Paradiso, un percorso in cui vengono esposti tutti i difetti e i pregi dell’uomo.

Questo suo progetto sarà il soggetto della prossima mostra?

No, la mia prossima mostra riunirà tutto quello che ho dipinto sul tema della Cina, ma sono certo che entro i prossimi due anni una mostra su Dante sarò in grado di allestirla.

Lei ha dedicato un suo ciclo pittorico a Dio. È credente?

Il mio rapporto con la divinità si esplicita in un continuo confronto con una presenza divina dalle molteplici forme. Non sono quindi ateo, penso che la divinità sia in ogni uomo, in ogni cosa, in tutte le culture e in tutte le epoche. Nel 2013 ho allestito la mostra “In nome di Dio” – che seguiva quella sulla Cina, intitolata la “Seduzione del Drago” del 2012 – e così ho realizzato il mio desiderio di sintetizzare un simile concetto in opere criptate, non facilmente decifrabili, così da esprimere le difficoltà incontrate dall’uomo alla ricerca della divinità. Ad esempio, l’opera “Un Oceano di Fede” è un’onda, un mare, un paesaggio che si vede e non si vede, ma in realtà è una stilizzazione del nome di Allah perché per il popolo islamico Allah è un oceano di fede. Anche nell’opera “Fuochi e Pietra” c’è un vento che corre lungo una roccia che rappresenta l’iscrizione di Yahweh, con due simboli ebraici, i triangoli, non ancora fusi tra loro. Abbiamo quindi un triangolo nel mondo della divinità e un triangolo terreno. Quando questi si uniranno, come l’uomo e la donna, come la terra e il cielo, allora vorrà dire che l’unione tra uomo e Dio si sarà completata.

 

Fonte

Gerardo Marazzi

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